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Urpino, microstoria di una liberazione urbana

La vera storia dell'agnellone adottato raccontata dai protagonisti

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Questa è una microstoria di cani, di pecore e di umani. E di Facebook. Una ministoria che non dico sui giornali di carta ma nemmeno sui giornaletti elettronici senza blasone come questo meriterebbe.  E invece ha dignità di stampa perche è normale e vera, come lo sono i protagonisti.

Cominciamo da Carlo Zedda, cinquant’anni, cagliaritano, passeggiatore nel week end col suo cane a fianco. Dice Zedda: “Ho scoperto qualche settimana fa che finalmente a Monte Urpinu si possono portare i cani. E ho iniziato ad andarci col mio”.

Vai oggi e vai domani e osservi un mondo che altrimenti, se non sei boccomero o adolescente in vela o tennista del Tc Cagliari o nonno comandato al parco giochi con i nipotini, un mondo che a quasi tutto il resto degli umani sfugge. Fatto di pavoni che si pavoneggiano mostrando il verde e il blu che sembrano colori rubati ai pittori bravi: o saranno loro che li hanno rubati alla natura? Mah.

E con i pavoni ci sono le tartarughe, le papere con il colletto marrone. E gli operai della coop Primavera 83 che gestisce il parco. “E poi c’è Urpino, un montone”, continua Zedda. “Anzi c’era, perché adesso lo hanno adottato”.

Arriviamoci, dunque, a questa stramba adozione. Ma prima scopriamo che ci fa un allegro montone di quaranta chili (dieci di lana) sotto viale Europa. “A dire il vero non lo so nemmeno io come sia arrivato sino a qui”, racconta Andrea Vinelli, il capo degli operai, “mi ricordo che è passato un anno da quando lo abbiamo trovato. Era un agnellino, girava per il parco”.

Ipotesi più fondata: donato per le feste a qualche professionista del quartiere, padre di giovani figli che si sono inteneriti e hanno protestato vibratamente davanti alla concreta ipotesi della pentola a pressione.  In effetti a casa mia, che era proprio a due passi da Monte Urpinu e in quella campagna degli anni ’70 ci ho pascolato a piedi, in bici, in motorino e in moto, a casa mia piovevano tra Natale e Pasqua agnellini di Sanluri. Già macellati, per fortuna. S’angioni po’ su dottori. E mio padre dottore lo era davvero, nel senso che curava migliaia di malati, peraltro dimenticandosi di presentare il conto. Ma questo è un'altra storia.

Arrivava di tutto in via Scano, da noi. Cioccolati, panettoni, alcolici. Carriolaras di dolci fatti in casa. Ma soprattutto agnelli. Molti agnelli morti. Da regalarne e ne avanzavano ancora. Solo una volta, un sabato pomeriggio di dicembre, ne portarono uno vivo a mio padre e fu tale la rivolta mia e di mia sorella Valentina, già in età della ragione, che la bestiola agreste fu accompagnata dopo poche ore verso l’uscio di casa insieme a chi ce la voleva ammazzare in faccia in cucina.

Chissà come, chissà perché  ma Urpino è finito tra quei laghetti artificiali che io ho visto in costruzione, inizio anni Ottanta. E gli operai, che avrebbero potuto riservargli in poche ore un destino non felicissimo, lo hanno adottato. E dagli da mangiare oggi e giocaci domani, e guarda quanto è carino, cresce e cresce e gli spuntano pure le corna. E inizia a farsi sentire quando ti prende affettuosamente a testate sulle ginocchia.

“Abbiamo dovuto rinchiuderlo dentro un recinto”, continua Vinelli, l’espressione di un uomo per bene, “lo facevamo uscire la mattina ma poi era un casino farlo rientrare nel box”.

E qui torna in scena il cittadino modello Carlo Zedda: vede tutto, fotografa tutto e quando trova un consigliere comunale riferisce tutto. “Ma come si può…. Ma non ci sono solo i cani e i gatti… Ma la civiltà di un Comune e di una collettività si misura anche da cosa fa per queste bestie”.

La sfida. A me. Che dieci anni fa ho fatto adottare al mio amico generoso Gigi Pambira il mitico Sansone, cane della rivoluzione, nato e cresciuto per 13 lunghissimi anni dentro una gabbia al canile di via Po. A me che ho dormito dentro l’Aula consiliare per sostenere la lotta dei precari del Comune. A me che ho occupato tredici volte Abbanoa e pure qualche call center.

Gli dico guardandolo dritto negli occhi attraverso i miei fotocromatici nuovi: Zedda, c'hai un cognome che è già un programma: vai tranquillo che la risolviamo. E l’impegno è doppio per uno che guida un movimento con profonde radici agropastorali. Tutto si può dire ma che la Base non ne sappia di campagne più di tutti gli altri partiti messi assieme, dalla A di Autonomia operaia a finire con la Z di Zona franca.

Prendo il telefonino e condivido all'universo mondo elettronico la cosa. Foto dell’ex agnellino, che viene ribattezzato Urpino (monte, montone, ah ah, capito il gioco di parole?), racconto in tre righe la storia e subito scatta l’interesse. Bellino, carino, poverino. Arriva Juana Bini, veterinaria, giovane, un sorriso da qui a qui. Dice: Urpino lo prendo io. 

Sicura? “Certo che sono sicura. Ne ho altre sette. Tutte trovatelle. Abbandonate nei parchi e nei parcheggi dei centri commerciali. Le ho tutte in una campagna tra san Sperate e Monastir, brucano e tengono pulito”.

Non è uno scherzo: Juana esiste davvero e ha questa passione.  Cani, gatti, cavalli ma soprattutto pecore.

Il gran giorno arriva. Passo in Comune a prendere il direttore generale, Cristina Mancini, che già sorride al pensiero che l’amministrazione si occupi anche di pecore. Paolo Frau, assessore al Verde, è con noi. E a Monte Urpinu su fa trovare anche Juana, con la sua Panda van. Entra nel recinto come se fosse a casa sua, prende Urpino e se lo bacia tutto: è subito amore. Lui cerca di farsi notare e spinge,forte come un torello anche se è pecorone. Lei lo acchiappa per il pelo e lo solleva e non diresti che ce la possa fare, una con le braccia sottili così. “Ti toserò”, gli dice, “con le forbici che uso io”.  Poi si rivolge a me, che sto filmando tutto col telefonino, e mi confida: ”Vedrai che si sentirà spaesato, soprattutto i primi giorni. Non è cresciuto con altre pecore, pensa di essere un operaio anche lui”.  

In effetti, di giorni ne sono passati quattro e Urpino a San Sperate bruca ma socializza ancora poco con il resto del gregge. In compenso segue Juana come un’ombra. Ed è libero. Felice. Lo stesso destino che meritiamo tutti noi.    

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